venerdì 6 dicembre 2013

IL POST SBAGLIATO

Questo post doveva essere molto diverso. Doveva parlare di addetti al call center della Provvidenza duri d'orecchie, del mio disappunto nello spiegare loro che è vero che quando chiedevo un essere umano, possibilmente maschio, che di me volesse proprio tutto non avevo in mente un soggetto specifico, ma è altrettanto sicuro che non mi riferivo ai signori di madre ignota che mi hanno svaligiato casa in una sera di ottobre, fottendomi tutti i pc,
tutte le mie foto e pure tutti i miei orecchini di bigiotteria. Doveva raccontare di quanto sia stato divertente guardare il film Orgoglio e Pregiudizio sul divano viola (lo ripeto, non si sa mai, VIOLA) dell'Inquisitore Spagnolo, di quanto l'oscuro giovane abbia apprezzato la storia e di quanto sia chiaro che, in un ipotetico universo di realtà libraria, lui e Mr. Darcy sarebbero stati grandi amici. Esaurite le elucubrazioni mentali sul divano (ovvero, se il viola mi sponsorizzi di più un profilo sessuale incerto, inducendomi ad arruolarmi immediatamente nella Legione Straniera, causa ennesimo maschio inutilizzabile, o se invece non confermi un promettente profilo da serial killer, dando ragione a Pupi Avati e alla considerazione, espressa nel film La casa dalle finestre che ridono, della salute mentale di quanti abitano la Bassa), questo post avrebbe pure potuto raccontare di quanto sia stato comico guardare Twilight sempre in compagnia dell'Inquisitore Spagnolo ed ascoltare i suoi commenti esterefatti di fronte a tanta inettitudine cinematografica ed attorea. Temo che alla fin fine sarei perfino scivolata sullo svenevole, parlando di mani robuste che sventrano confezioni multiple di yogurt solo per estrarre il mio vasetto preferito, gusto strudel (perché io valgo) e di gite in campagna, terminate invariabilmente con violazione di proprietà privata e ritorno allo stile Pupi Avati dappaura. Se avessi scritto nel giorno giusto, questo post avrebbe perfino potuto parlare di gesti delicati e mani baciate, in perfetto stile Jane Austen.
Invece no. Non è che mi manchi l'ispirazione, magari un po' mi blocca l'istintivo senso del ridicolo e del vomito della Cinica, ma i problemi sono ben altri, come amano dire i frequentatori noioserrimi del web. Il problema, nello specifico, è che non mi è mai concesso di dimenticare che razza di lavoro faccio, quanto sia faticoso, difficile, surreale e, spesso, senza un senso al mondo. Il problema è pure che fare questo lavoro ti costa, economicamente, come se ti stessi concedendo un lusso, invece che cercando di condurre una vita normale ed autonoma, come ogni altro essere umano. Il problema, se l'elenco che precede non rende a sufficienza, è che le persone continuano a credere che se sei avvocato sei un ladro montato, venditore di fumo, che sguazza nel denaro immotivatamente guadagnato, e si fa pagare cifre assurde solo per sollevare la penna. Di questo si ringrazia Grisham, che chissà come mai preferisce però scrivere che fare l'avvocato, e quanti negli anni 80' e 90' hanno ciucciato tutto il ciucciabile dal sistema, manco fosse un osso buco. Come ho già detto su facebook, usciamo dall'anonimato: oggi il giovane avvocato è una figura romanzesca, tenera, avventurosa, un pelino pirla e se la Boheme fosse ambientata ai giorni nostri tutti i protagonisti farebbero la mia professione, altro che pittori e poeti. Avvocati come moderni Don Chisciotte: di mulini conoscono solo quello delle merendine (ma credono si chiami Mulinobianco, tutto attaccato), ma passano tutto il proprio sottovalutatissimo tempo a combattere.
Decidere contro cosa combattere è solo una questione di giornate e a volte di orari. Innanzi tutto, i cancellieri: protagonisti indiscussi delle nostre mattinate, per una semplice questione di logistica degli uffici, sono in grado, in poche semplici frasi, di far vivere a chiunque l'emozione di sentirsi dentro un quadro di Escher. Sarà merito anche della pianta a labirinto del Tribunale, non lo metto in dubbio, però i nostri eroi ci mettono del loro e con gusto: normalità è essere rimpallati da un piano all'altro, da una scala nascosta ad una ancora più nascosta, da un ufficio 6.2 ad un ufficio 6.3, che però non è di fianco al precedente, come la numerazione lascerebbe supporre, ma si trova tre piani più su, in un ballatoio traballante, a cui si accede soltanto da una porticina, che continui a intravedere senza riuscire a raggiungere, perché sei sempre sulla scala sbagliata. Onirico, Salvador Dalì avrebbe apprezzato, io un po' meno. Di recente però il paradosso mi si è mostrato in tutto il suo splendore: chiedo un chiarimento procedurale agli sportelli generali e mi viene detto che non lo sanno ("boh...Maria tu l'hai mai sentita questa legge?" Cit. Test.), che forse la cancelleria lo sa. Vado nella cancelleria di riferimento del Giudice incaricato e mi viene detto che non posso chiedere spiegazioni a loro, che devo chiedere agli sportelli generali. Ma, obietto io, ci sono già stata, non lo sanno e mi hanno mandato qui. Non è importante, non mi possono dare la risposta, dovrò fare da sola. Rimango silenziosa e stordita, tento un altro paio di porte a casaccio, finisco sul carrello del bel ragazzone africano che sposta i fascicoli da un'aula all'altra, elargisco molti sorrisi imbarazzati e alla fine esco. Guardo l'orologio, sono le 12.30, sono sudata, scarmigliata, le braccia mi fanno male perché ho almeno due borse (tre, quando mi sbaglio e afferro pure quella di qualche collega), la mattinata è trascorsa e non ho ottenuto niente. Ore di giri e cambi di scale per essere, se possibile, più confusa di quando sono arrivata. Alla fine ho un moto di ribellione, non mi avranno così facilmente. Rientro, passo dal metal detector, rimpallo sorridente il saluto della guardia ("di nuovo, avvocato?"), dribblo i portinai, scavalco un paio di praticanti chiaramente in stato confusionale, inciampo nelle scarpe a punta del solito collega che staziona appeso al solito stipite della porta di un'aula, sorrido scusandomi con le venti persone che sto per superare illegittimamente e piombo, come una poiana in debito di ossigeno, sul Giudice. Prima che possa formulare l'imprecazione che tiene a fior di labbra, le lancio la mia domanda irrisolta, tipo giocoliere. Lei smette di ringhiare, mi sorride comprensiva e mi dice ciò che mi sento dire almeno una volta al giorno: che non ne ha idea, che nessuno ha capito la nuova normativa, che  ancora non hanno affrontato il problema e mi consiglia affabile di fare come credo, che poi la sistemiamo in udienza. Questo è tutto, gente. Questo è il risultato di una mattina di lavoro. E' sconfortante e ti fa fare la figura dell'idiota con il cliente, che non crede al tuo strisciare fisico su rampe di scale vetuste e si immagina che tu abbia passato la mattina da Zanarini, saltando dal cappuccio allo spritz, immerso in un'orgia di zuccheri e alcool, dimentico dei tuoi incarichi e pronto ad inventarti questa balla inudibile una volta richiamato, ormai sbronzo, all'ordine.
Seguono, seconde solo in ordine di apparizione, le lotte all'Agenzia delle Entrate, a cui io mi sottopongo minimo una volta al mese, anche per non perdere l'allenamento e con la segreta speranza che tutta la tensione generata valga a rassodare i glutei. E' come entrare in un'arena, come affrontare gli Hunger Games dal vivo e senza effetti speciali. Né senza avere il fisico della protagonista, a titolo di mero risarcimento per lo sfascio esistenziale. Notare che ci vado sempre per gli stessi adempimenti, sempre con gli stessi moduli, eppure ogni volta c'è qualcosa di diverso: vuoi perché nel frattempo l'Agenzia ha emanato l'ennesima circolare (circolare interna, che nessuno, se non i dipendenti, può conoscere e che pure ti viene sbattuta in faccia come se tu fossi un capra pigra che non si aggiorna), vuoi perché ogni sportello ha la sua personale interpretazione, meglio delle sezioni della Cassazione, vuoi perché ormai la precarietà è il simbolo di tutta la nostra produzione legislativa e non puoi più fare affidamento sulla norma in vigore la settimana prima. Ogni volta scopri qualcosa di nuovo, ogni volta devi ricompilare il modello 69 che già avevi preparato, ma non te ne fai un problema, perché tanto davanti a te hai una fila di due ore e circa 60 utenti imbufaliti, potresti riscrivere Guerra e Pace al contrario che ancora non starebbe a te. E anche se è vero che vi sono alcuni impiegati davvero gentili, è pure vero che molti altri sono a dir poco scortesi, mentre soltanto a tre o quattro si può fieramente appioppare l'appellativo di Incubus. Non sono soltanto mie percezioni, ho sentito distintamente colleghi molto più adulti di me sussurrare terrorizzati "Oh no, mi chiama di nuovo lei, vedrai!" come se si trattasse dell'orale a sorpresa della maturità e non di un colloquio ad un semplice sportello che, in via teorica, dovrebbe renderti un servizio. Tutti sanno che le cose stanno così, anche i miei colleghi di studio: la preparazione dell'incontro con l'Agenzia assomiglia, in modo surreale, ad una conferenza di guerra, con documenti spianati sulla scrivania come tabelloni del Risiko, valutazione di mosse e contro mosse, possibili eccezioni loro, possibili balle nostre per aggirare l'ostacolo, minuti di panico passati a sudare sugli spazi vuoti ed incomprensibili dei moduli e, infine, una sola soluzione, sempre quella: stampa a nastro di almeno 5 copie del modulo in bianco, in caso di critiche, correzioni, rifiuto di registrare l'atto, bomba atomica ed esplosione della macchinetta del caffè che non funziona.
Indimenticabili anche le lotte contro i clienti. Ci sono quelli che hanno fretta, anche se gli hai spiegato mille volte quale sia la tempistica della pratica, quelli che continuano a capire esattamente il contrario di tutto ciò che gli hai detto e ti costringono a mail esplicative degne dei migliori glossatori, quelli che ti fanno dannare in mille ricerche e poi ti contestano il compenso di una lettera che "cosa ci vorrà mai a farla". Il mio preferito rimane un cliente degli albori, un giovane di belle speranze, il quale, nel tentativo neanche troppo nascosto di sminuire il mio intervento e, di conseguenza, la cifra del mio compenso, mi disse con tono sbrigativo: "allora la scrivi tu la lettera al Giudice per spiegargli che abbiamo ragione".Certo, la scrivo io la lettera al Giudice, che ci vuole.Ci metto pochissimo e già che ci sono, visto che le feste sono vicine e il Giudice ha la barba, gli chiedo se ha modo di sentire Babbo Natale, nel qual caso gli ricordasse quel bel paio di stivali a cui faccio la punta da mesi. L'idea che le cause vadano iniziate con degli atti, che gli atti non siano affatto lettere, almeno di chiamarsi Werther ed essere giovane ed afflitto da dolori, e che per comporre un atto ci vogliano molte ore di scrittura e ragionamento e ancora più giorni di ricerca e studio, è un fatto che nessuno, mancante di abilitazione professionale, vuole sapere. Nessuno vuole sapere che la propria difesa costa fatica, tempo, mal di testa, esaurimento nervoso e moltissima ansia, visto che siamo in un paese in cui l'interpretazione frammentaria e locale è la normalità. Nessuno vuole credere che convincere un Giudice che le tue ragioni sono giuste, evitando i mille trucchetti procedurali così ben disseminati in codici e leggine, sia un'impresa ardua, che si tratti dei bond Parmalat o di una multa per parcheggio abusivo di bicicletta. Nessuno, per quanto istruito ed intelligente, vuole credere che il Giudice possa non essere d'accordo con lui sul fatto che abbia evidentemente ragione. Ne discende che, se la causa viene persa, la delusione è enorme, anche se le richieste avanzate erano irragionevoli ed irrazionali e anche se la logica con cui ti hanno costretto (letteralmente) ad avanzarle era degna di un pamphlet del Cappellaio Matto. Bilancio finale dell'avvocato (cioè io): dopo ore passate a litigare con il cliente per convincerlo a non fare la causa, dopo essere stata comunque costretta a farla, dopo giorni di ricerche ed analisi, dopo aver scritto argomentazioni fino alle 3 di notte, dopo essere stata ricoverata per un principio di artrite deformante alle mani, ti senti dire che è stata tutta una delusione, che ci si aspettava molto di più, che proprio non valeva la pena fare tutta questa fatica. E  lì, per una volta almeno, siamo d'accordo. 
Ultima, ma non certo per importanza, viene la lotta con il Legislatore, il Demiurgo, colui che tutto impasta e confonde. Me lo immagino, il Legislatore, come un personaggio di qualche libro di Dickens: avvolto in una vestaglia di velluto rosso, collo di pelliccia bianco, pantofole antiquate. Si aggira per i palazzi governativi annoiandosi a morte, finché non gli viene l'idea di una partitina a Burraco con gli uscieri e i portaborse. Scatta il torneo, si va avanti fino a notte fonda e lì si sa, ti viene una voglia incredibile di un po' di sano alcool, anche per smorzare la tensione del gioco. E quindi si comincia con i cuba libre e le grappe, che tanto bene si sposano con il gioco, se non fosse che ad ogni bicchiere diventa più difficile distinguere i cuori dai fiori dalle picche dai quadri dalle unghie del vicino di sedia. Alla quarto mano alcolica, scocca la scintilla del pensiero geniale: ma non sarebbe tutto più semplice se ci dessimo un taglio a questi giudizi di cui non si capisce nulla? E via, con la genesi del decreto tagliariti, che come una cesoia falcia un numero imprecisato di procedimenti, che funzionavano perfettamente così e non erano sicuramente la ragione della durata dei processi, tra cui stava ovviamente anche il mio. Così, dopo aver fatto riunioni su riunioni con il cliente per spiegargli la procedura e avergli assicurato che è semplice ed economica, ti alzi una mattina e, mentre il Legislatore russa smaltendo la sbornia da giocata, tu sfiori da vicino l'infarto nell'apprendere che tutto quello che hai preparato e detto non serve più, che tutto è superato, che tutto è stato reso ovviamente mille volte più complesso e incomprensibile e che, glassatura finale, la tassazione è stata innalzata del 500%. Vi risparmio ogni ovvia considerazione su quanto sia piacevole doverlo illustrare al cliente e su quanto questi vi guardi sempre e comunque con un occhio dubbioso, di chi mantiene il sospetto che tu sia un ciarlatano venditore di prodotti miracolosi per fermare la caduta dei capelli negli ottuagenari. 
In tutto questo delizioso quadro, ho volontariamente scelto di omettere la parte relativa agli anni di pratica e collaborazione presso studi altrui, alla antica tradizione di non pagare nessuno perché essere ammessi a vedere l'opera dell'Avvocato, anche quando tu stesso sei già avvocato, è un onore, all'esperienza straordinaria che è venire gettati nei giri (o gironi) di Tribunale appena emersi dall'Università, luogo dove ti hanno istruito a recitare a memoria i nomi degli amichetti di Irnerio e Accursio, non a distinguere un fascicolo di ufficio da uno di parte. Ho scelto di fare questa omissione non perché qualcosa intanto sia cambiato, che non mi risulta proprio, né perché trovi che il problema non mi riguarda più, che ancora mi ci incazzo al ricordo, ma solo perché è quasi Natale e non voglio si dica che questo lavoro mi ha inaridito il cuore. Non sarebbe bello e nemmeno vero, era ben esiccato già da prima. So che in questo periodo la gente si aspetta maggiore gentilezza e quindi non voglio infierire oltre su quanti, tra poco, si ritroveranno alla fiera di Rimini, stipati in uno stanzone freddo, attaccati uno all'altro nel tentativo di scrivere atti e pareri restando nelle 8 ore concesse, ignorando il brusio di oltre duemila persone ed usando una calligrafia leggibile, a costo di strappare la mano del compagno ed utilizzare il moncherino in sostituzione della propria. Perché gli atti, nell'esame scritto per l'abilitazione professionale, si scrivono a mano. Una cosa che ovviamente non ti capiterà mai più nella vita, salvi sempre i viaggi nel tempo, che non riflette affatto il lavoro nella sua concretezza né misura la tua preparazione, al massimo quella di tendini e muscoli dei tuoi arti. Al tutto si aggiunge l'ansia del non poter andare in bagno per le prime ore (assurda regola che spinge molte giovani donne a rischiare la disidratazione e a leccare cubetti di sale, pur di scongiurare la maledizione della micro vescica femminile) e il terrore dei segni di riconoscimento. Quest'ultima è una leggenda metropolitana che ha indotto alle lacrime almeno i 3/4 dei candidati, convinti ogni volta da un compagno sadico che il fatto di aver lasciato le proprie impronte digitali sul foglio possa essere interpretato come un segno distintivo e dunque violazione dell'obbligo di anonimato del compito. No, non infierisco oltre, i tre giorni di prove sono già abbastanza duri di per sé, senza che uno si chieda cosa viene dopo e se ne valga la pena. A chi non vi ha mai preso parte, posso solo dire che questo mondo sarebbe migliore, o almeno più sveglio e meno lagnoso, se invece di costringere uomini e donne all'addestramento militare fosse stata resa obbligatoria la pratica forense, a prescindere dagli studi fatti e dalle aspirazioni professionali. A chi sta per prendervi parte posso solo consigliare di sfanculare da subito coloro che salutano chiedendo quante volte avete provato l'esame e di falciare a suon di calci laterali nella rotula i compagni che instillano il dubbio che fare un cazzo di trattino per evidenziare gli argomenti esposti possa essere considerato segno distintivo e, come tale, valervi l'annullamento dell'intera prova. Ricordate loro che i gironi dell'Inferno sono tanti e si fa sempre in tempo ad aggiungerne uno ad hoc per gli stronzi senza giusta causa. E possa la fortuna essere sempre a vostro favore.

Nessun commento:

Posta un commento

Sono cinica, ma non ottusa. Quindi, niente paura, dimmi cosa ne pensi!